Amore. Famiglia. Tempo e Caponata. Buon 2024

Birillo, il merlo indiano, ha imparato il dialetto siciliano dai muratori che ci hanno ristrutturato casa, ogni tanto nel silenzio di casa iniziava a gridare ‘amuninne!’ e farfugliare frasi siciliane qua e la con accento impeccabile ‘un si trasi un si trasi un si trasi!”

Questa mattina la nonna lo ha messo davanti alla porta finestra, il sole che filtra lo scalda e lui sta sul trespolo a testa alta proprio a godere di quel solicino di fine anno.

Si è svegliata, la nonna, con la smania di pulire, mi ha svegliato alle sette e mezzo e messo un cencino in mano dicendomi di spolverare camera della mamma. 

Io con gli occhi abbottonati ho fatto colazione, vestito ‘piccolo’, il mio bambolotto, con i vestitini nuovi e me lo sono trascinata in camera della mamma per iniziare a fare le faccende.

‘Mimma spolvera bene io vo a pulire le ambrogette del bagno’ 

La parola ambrogette mi mette sempre agitazione al cuore, ogni volta che la sento. Quella sensazione di ‘fermate tutto e fatemi tornare li’ che accade quando attraversi ricordi così intrisi di amore.

Si perchè per noi bambine la felicità è qualcosa di simile all’armonia, il cadere dei ritmi e il rispetto delle piccole tradizioni.

Per i bambini la felicità è la cosa più vicina alla tranquillità.

Dal bagno la sento con il fiatone mentre canticchia ‘osanna nell’alto dei cieli’, la sua nenia preferita che intona quando si concentra nel fare le faccende mugolando, senza scandire le parole. Quello accade la domenica in chiesa.

La domenica in chiesa la osservo da dietro l’altare dove sono nascosta a “servire la messa”, anche se come tutte le timide croniche mi limito a suonare il campanello dell’eucarestia nascosta dietro la gonna di Don Bellucci con un’ansia a mille preoccupata di sbagliare il momento.

Da li la guardo, la nonna, con il suo vestito grigio con la giacca dalle maniche sempre un pò lunghe e gonna a mezza gamba, la camicetta rosa, il fazzoletto in tasca e la borsetta in mano. La guardo seduta accanto alla zia Marina, sua sorella. La sorella piccina, quella che è andata a scuola perchè ai loro tempi solo una in famiglia studiava. La sorella tanto amata, persa troppo presto come è accaduto a tante persone che ha amato.

Nel tempo ho pensato spesso a come avrei fatto io, quale forza avrei trovato al suo posto quando ha perso il grande amore della vita così giovane, a soli 48 anni. Ai tempi mi sembravano vecchi tutti quelli che avevano dai 14 anni in su ma lei ha perso il marito tanto amato davvero tanto presto e ogni giorno ha coltivato fiori e piante per portarli alla sua tomba sino al giorno in cui non si è potuta muovere più.

Ogni domenica dopo la messa montava in macchina del babbo che l’aspettava a motore acceso e faceva la sua visita al nonno, puliva il marmo del forno e rimetteva i fiori freschi, ogni domenica io l’accompagnavo e lei ripeteva sempre le stesse mosse, le stesse frasi, gli stessi gesti, come in un cerimoniale di famiglia celebrava il dolore di quell’assenza, le promesse fatte in vita per scherzo quando le aveva detto ‘non fami mai mancare i fiori se muoio prima io eh!’ e così è stato.

Non sono mai mancati quei fiori, mai mancato il suo ricordo a tavola, non ha mai portato agli altri il peso della sua sofferenza nemmeno quando a quella lista si è aggiunta la sua amata e sempre giovane sorella. 

Le ricordo in terza fila vestite simili, la zia Marina era alta e magra e la nonna era bassa e tonda, ma erano sempre insieme, vicine nelle loro palesi diversità.

Noi eravamo la famiglia dei rivoluzionari comunisti e nessuno di noi eccetto la nonna ed io che ero obbligata andava in chiesa, nella famiglia della zia erano democristiani e molto devoti ma l’essenza dell’unione non si è mai mischiata alle scelte di vita. Il bene era un bene superiore, mosso dall’essere parte della stessa essenza, provenire dalle stesse profonde radici.

Io la zia l’ho amata tanto, mi salutava ogni giorno quando passava per andare all’orto, mi portava a Sesto dai Mimmi e ogni volta andarci sembrava un viaggio interminabile, fra Site, autobus, pezzi a piedi, buste piene di roba da mangiare e giochi, quando è morta non ho pensato a come stavo io, ci ho pensato anni dopo, ero troppo concentrata sul dolore degli altri, vedevo la nonna così triste e rassegnata che il mio dolore poteva essere solo un peso in più. E l’ho lasciato da parte, il mio dolore, ogni tanto fa capolino ma l’affogo in un ricordo.

Da dietro la gonna del prete la sentivo intonare l’acuto di ‘Osanna’ che sovrastava perfino le note alte della Luisa di Lorenzo. La più intonata fra le comari del prete.

Era il suo momento, dopo giorni di prove e contro prove mentre puliva le ambrogette quell’acuto finalmente si poteva sfogare. 

Il Ciccio da dietro mi tirava la treccia, mi sussurrava ‘senti che acuto l’Eliana!’ e rideva.

Sentirla cantare in bagno ogni volta mi faceva sorridere e ripensare al suo momento di gloria in chiesa.

Io nel frattempo avevo sistemato ‘piccolo’ nel letto, aggiustato le coperte con le manine piccole di una bambina di sei anni, con la testa inclinata a imitare quelle delle mamme gli sussurravo piccole frasi per farlo dormire.

Piccolo era il mio bambolotto preferito, profumava di bambino vero e per i primi due mesi di vita gli batteva il cuore. Poi son finite le pile e nessuno ha pensato valesse la pena cambiarle quindi il suo cuore ha smesso di battere.

Era arrivato la notte di Natale di due anni prima, mi ero svegliata la mattina abbracciata a qualcosa di profumato e morbido e da quel giorno non me ne sono separata più. Lo dico davvero dato che a casa mia, oggi, a 47 anni nel mio caos dove non so trovare le scarpe estive e i cappelli, io so sempre esattamente dove si trova ‘piccolo’.

“Eh Piccolo se Babbo Natale mi avesse portato tutto quello che avevo chiesto ti sarebbe arrivata una sdraietta nuova e anche le coperte per tenerti al calduccio”

“Mimma smettila di baloccatti e spolvera codesti mobili!”

“Si Nonna ma sto parlando con ‘piccolo’! Un attimino!” si affaccia alla porta di camera con la testa inclinata e le mani sui fianchi ‘e cosa gli dici a ‘piccolo?’ che rintroni anche lui di chiacchiere?”

“Gli dico che io non penso proprio di essere stata birbona e che Babbo Natale secondo me non ha letto tutta la letterina…”

“Eh si forse non ha finito di leggere!”

“Le mie amiche quelle grandi, quelle che hanno già le poppe dicono che non esiste!”

“Le tue amiche sono state birbone e tutti quelli che sono birboni dicono che Babbo Natale non esiste mimma! Via giù vai a spolverare che ti do un nocchino!”

“Già , forse son birbone.” mi volto verso il mio bambolotto per congedarmi, “scusa Piccolo vo a spolverare, la nonna rompe le palle” mi arriva una pacchina sulla testa leggera e decisa che mi fa trasalire, la guardo e lei ride, già pentita del suo gesto ammonitore.

“Pulisco e torno da te, intanto dormi” e gli passo la mano sugli occhi, anche se lui era un modello base a cui batteva il cuore con le pile ma non si chiudevano gli occhi se si distendeva. Come i Cicciobello delle mie amiche alcune con le poppe che me lo facevano notare sempre con quel tono ‘gne gne gne’ che hanno le femmine e che purtroppo spesso non perdono nemmeno nel crescere, ma a me non importava. Per me era perfetto!

Per i bambini la perfezione è semplicemente ciò che si avvicina alla felicità di cui parlavo prima. Non è una lista di caratteristiche da rispettare e canoni da assecondare. È ciò che il cuore ama con semplicità, senza fare sforzi.

Lo sanno fare i bambini, ce lo ricordiamo quando diventiamo mamme e guardiamo i nostri cuccioli ricordando quella sensazione di armonia e perfezione dettata soltanto dai canoni del cuore.

Spolveravo la fila di soprammobili inutili senza dire niente, ogni volta che mi azzardavo a criticare partiva una tiritera con la storia di ogni soprammobile e non ne potevo più, passavo lo straccetto con le manine piccole e mi domandavo che senso avesse tenere quelle cose li che nessuno poteva vedere solo per essere spolverate ogni giorno. Chiacchieravo sottovoce da sola, come facevo sempre come faccio tutt’ora, dandomi ragione e sistemando a mio modo le regole del mondo nella mia testa senza aver bisogno di sapere come la pensavano gli altri, come faccio ora. Come mi diceva la nonna ascoltandomi in silenzio ‘mimma te tu te le canti e tu te le soni da te!”.

Ero campionessa mondiale di chiacchierata multipla, riuscivo a parlare con più persone contemporaneamente ascoltandole tutte e soprattutto arrivando ad avere ragione con tutti. 

Mi tenevano testa solo la mamma, che interrompeva le mie lamentele con frasi secche che mi lasciavano pensierosa, la Dida che mi ricattava facendo leva sulle mie caratteristiche biologiche relative all’aver paura di tutto anche e per davvero della mia ombra e poi la nonna. Le tre donne di casa.

Per tutto il resto non c’era verso. Sfinivo gli umani sfidanti a suon di parole e frasi motivazionali sino allo stordimento. Sia a casa che a scuola. Bidelle comprese. 

La spolveratura era quasi terminata, la nonna era già in cucina a impastare con i tempi calcolati di uno chef provetto. 

Io non capivo bene il motivo di tutta quella agitazione. Babbo Natale era passato, alla Befana mancavano giorni, l’evento dell’anno cioè il mio compleanno si avvicinava ma non mi pareva ancora il momento di stendere la pasta per le lasagne. 

In salotto seduta in terra immaginavo mondi a cui approdare e tesori da scovare giocando con il mio galeone playmobil nuovo di pacco. Raccontavo storie che mettevo in scena con ‘piccolo’ seduto accanto a me, a volte ribaltato a testa in giù sulla sedia perché gli pesava la testa.

Gli raccontavo tutto quello che mi accadeva e soprattutto tutto quello che accadeva nel fantastico mondo che nella mia testa creavo ogni giorno. Era il custode delle mie fantasie, quello che poi è diventato il mio diario quando ho imparato a scrivere qualche anno dopo.

Piccolo è stato testimone della mia prima forma di amore per il racconto, chissà se si si ricorda ancora tutte le cose che gli ho detto chiuso nel secondo palchetto a destra dell’armadio dentro al ripostiglio di casa.

“Amuninne!!”

“Birillo ma dove vuoi andare!!” chiacchieravo anche con lui ovviamente per non perdere l’allenamento.

“Oggi piove!!” io ogni volta scoppiavo a ridere e sentivo la nonna ridere come una matta in cucina. 

Birillo diceva questa frase quando gli faceva troppo caldo.

Se lo mettevamo al sole quando iniziava a salire la temperatura esclamava “Oggi piove!” che a noi pareva uno scongiuro per lui era solo un errore di associazione.

Alla televisione c’era Magalli ma nessuno lo guardava, credo sia la ragione del successo di decine di presentatori scaci messi nei programmi della mattina che le casalinghe usavano come compagnia al posto della radio, la nonna non sapeva nemmeno il nome del programma lo teneva li solo per non sentirsi sola, e quando c’ero io per distrarsi un pò dai miei monologhi.

Sistemavo ‘piccolo’ sulle sedie ma cadeva a testa in giù sempre perchè gli pesava la testa e io sbuffavo.

“Mimma codesto bambolotto tu lo fai diventare grullo!” 

“Oh nonna Babbo Natale non me l’ha portata la sdraietta!!”

“Eh ma t’ha portato il Galeone!!”

“Si…” mi voltavo ogni volta e lo guardavo come oggi guardo i video di Rui Costa alla partita del saluto a Firenze. 

Rimaneva il problema che ‘piccolo’ cadeva di testa dalle sedie ma io ero così felice a immaginare viaggi impossibili e tesori nascosti che il problema ‘piccolo’ rimaneva un piccolo problema. 

Dal fondo della strada una macchina accellera col fare tipico del mio babbo quando rientra a casa, con la differenza che il mio babbo a casa solitamente torna a buio, ma io non ci faccio caso, mollo le bandiere degli alberi maestri del galeone e salto in piedi per osservare dall’alto l’arrivo del Mercedes 190 color cacchina che si palesa sotto di me e inchioda nel piazzale di casa. 

Non so perchè mio babbo ogni volta che torna a casa spende quelle mille lire di benzina in più per fare questo arrivo scenografico però per me è utile perchè mi avvisa di qualcosa di bello, sempre.

Per una bambina il rientro dei genitori a casa è sempre una festa. 

Soprattutto se lavorano tanto e li vede poco il rumore della macchina fa parte di quel piccolo spazio di felicità di cui prendersi cura. 

La macchina si ferma ma nessuno scende, solo il babbo che fa il giro della macchina e apre lo sportello. 

Io mi metto sulle punte e cerco di vedere meglio cosa accade, la nonna nel frattempo si è avvicinata e mi ha messo la mano sulla spalla. 

“Chi c’è mimma? Vai un pò a vedere?” Alzo la testa e riguardo giù. Esco di corsa senza il giubbotto, in un Dicembre freddo come accadeva quarant’anni fa e scendo le scale. Il babbo è chino verso la portiera del passeggero e vedo spuntare una gamba che non arriva a terra, il doppio di quella di mia mamma. Non è la mamma, a meno che non abbia una flebite. La mamma dove è? Mi avvicino e il cuore mi sale in gola. E’ la nonna Rosa!!!

“Nonnaaaa!!!” guardo in macchina e sul sedile dietro vedo la mamma che si appresta a scendere e accanto a lei minuto e sorridente il nonno!!

Salto di gioia mentre aspetto che le loro articolazioni gli consentano di scendere di macchina. La nonna si alza in piedi e mi sorride anche se palesemente dolorante. Le corro incontro, il babbo misura il mio entusiasmo per evitare di farla cadere e io abbraccio quella pancia tonda e poggio la testa su di lei chiudendo gli occhi. La nonna mi parla in dialetto e io non capisco una sega però mi accarezza la testa in un modo così capace che mi basta quello.

Con i tempi giusti saliamo in casa, la nonna Eliana ha preparato la tavola, i nonni scaricano le valigie e si avvicinano alla tavola per pranzare. Il nonno è il vero siciliano dagli occhi di fuoco, faccio fatica a guardarli quegli occhi tanto mi sembrano severi anche quando sorride, la nonna ha un volto dolcissimo e due occhi che parlano di comprensione e intuito. Sono gli occhi dei miei nonni la cosa che ricordo di più, ho dimenticato quasi tutto eccetto i loro sguardi, i grandi sorrisi e le cofanate di caponata che la nonna cucinava e che mangiano sino al mal di pancia.

A tavola tutti parlano e i discorsi si incrociano come si incrociano i piatti da riempire, Birillo si sente a suo agio con tutta questa parlata palermitana, ‘piccolo’ ruzzola dalle sedie.

“Vedi un pò cosa c’è nella mia valigia Elena?” non ha finito la frase che sono già in camera dei miei a codificare quale fosse la valigia della nonna e tentare di aprirla, dalla cucina seguo le indicazioni che mi danno, la apro e dentro c’è un pacco enorme rosso e bianco. Lo porto a fatica in cucina trascinandolo per il corridoio.

“Babbo Natale passò anche da noi per te!” non so perché i nonni portano verbalmente via lontano tutto ciò che accade parlando al passato remoto. Dispongono i ricordi subito nella soffitta più lontana come se fosse necessario stare nel presente il più possibile.

Mi sistemo al centro della stanza e inizio a scartare il pacco.

Certo questo Babbo Natale ha un’organizzazione pazzesca, lo penso da sempre, deve avere un folletto che compila file excel meglio di me per capire perfettamente come distributore i doni.

Il pacco è pieno di strati di carta, si mischiano in me emozioni di frenesia e impazienza, strappo con le mie manine quelle carte mentre dalla tavola tutti commentano e mi suggeriscono come fare, ma io, come sempre, faccio come mi pare. Strappo un lembo di carta e si scopre metà della grande scatola, appaiono del rosa e del bianco, i miei occhi tentano di ricostruire il disegno sulla scatola attraverso piccoli indizi cromatici, il cuore mi sale in gola quando vedo e capisco cosa c’è nel pacco.

Inizio a saltare come una bambina che riceve il regalo chiesto a Babbo Natale dopo aver perso le speranze.

I nonni sorridono, mi chiedono ‘cùosa cc’è nta paccu?’ io cerco con lo sguardo ‘piccolo’, è ribaltato giù dal divano e sta sulla testa in verticale con il collo piegato, corro da lui, lo sollevo come si solleva uno che ha fatto un incidente in macchina e con delicatezza lo porto davanti al pacco. Lui lo guarda anche perchè non ha le palpebre mobili quindi non può esimersi dal farlo, ‘E’ per te ‘piccolo’!’ e inizio a piangere come una bambina che ha appena ricevuto un regalo che sa che le piacerà tanto e che le ricorderà quei periodi di festa con tanta dolcezza anche da grande.

Corro ad abbracciare la pancia della nonna Rosa, mi ci immergo sognante mentre il nonno mi passa una mano sui capelli e mi bacia, sono al centro del cuore della mia famiglia, con lo sguardo cerco la nonna Eliana che trovo assorta a guardarci emozionata, le faccio l’occhino, sorrido emozionata… “vedi …esiste!” lei mi strizza l’occhio e sorride. Nell’epoca delle macchine fotografiche analogiche sarebbe stata una meravigliosa impressione su rullino da sviluppare in camera oscura. Lo lascio fare al mio cuore, e sviluppare alla mia penna, altro non posso.

Forse per questo non amo tanto festeggiare, perchè alcune mancanze sono troppo presenti dentro di me, e ogni volta diventa faticoso contare le assenze e affogare i ricordi.

Sono certa però che ricevere amore sia davvero un dono che vale tutta la vita. E che se ne ricevi tanti nella vita sarai portata per natura a donarne tanto.

A tavola intanto si parla del menù del cenone, i nonni hanno portato caponata e cassata.

Io posso anche andare a letto felice, ho tutto quello che un bambino davvero desidera.

Amore. Famiglia. Tempo. Caponata. (E la sdraietta per ‘piccolo’ che finalmente mi guarda giocare con il Galeone senza cadere più di testa dalle sedie).

Amore. Famiglia. Tempo. Caponata si, che è lo stesso che desidera un adulto ma spesso se lo dimentica.

Vi auguro un 2024 di salute e amore. Poter chiudere gli occhi e avere l’imbarazzo della scelta fra i desideri da esprimere al vostro brindisi di mezzanotte. Io li ho tutti in fila dentro al cuore, il primo fra tutti è quello di non smettere mai di sognare. Ho smesso di farlo per due anni, scioccata dai miei errori e le mie incapacità, come le ha chiamate qualcuno. Ho ricominciato da poco timidamente e sottovoce.

Più in alto fai volare i desideri e più forte è lo schianto quando cadi, ed io ero andata su parecchio, mi ci è voluto tempo per uscire dal cratere che ha provocato il mio schianto a terra. Ho avuto mani che mi tiravano su anche se io penzolavo a peso morto come l’appeso dei tarocchi, ma c’è chi crede in me più di quanto ci creda io, c’è chi mi ama più di quanto riesco a farlo io. E son tornata su, mi sono spolverata un pò, asciugata le lacrime e ho finalmente ricominciato a guardare il cielo e cercare la mia stella, la stella alla quale ogni volta racconto i miei desideri.

Ringrazio la vita per il tappeto volante d’amore su cui mi fa viaggiare dai tempi del Galeone ad oggi.

Ricordatevelo, l’amore è come il gin, vi auguro non ne vada sprecata nemmeno una goccia. Buon 2024.

ph. Archivi famiglia Miniera – Palermo

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